Una stagione a metà

Elisa Bellino
Virgola
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5 min readMar 4, 2017

La mia città mi attrae e mi respinge. Con una morsa allo stomaco e il cuore pieno di emozioni fugaci, riprendo in mano il mio taccuino, e il pullman numero 66, tossicchiando, riparte.

Al capolinea del 66 un pullman solitario ospita un caschetto bianco tagliato geometricamente, duro e rigido, che siede pochi sedili dietro all’autista. Spolvera un’atmosfera polverosa, e sembra non curarsi di una presenza piuttosto ingombrante, la mia, che cerca il suo spazio vitale all’interno di un autobus di linea.

Palazzi reali fanno da compagnia ad una attesa leggera e silenziosa. Parlano la lingua di una città per bene, pulita e ordinata, come la chioma precisa e schematica della passeggera che attende pazientemente l’inizio del suo viaggio.

Non appena la città inizia a muoversi il caos si dissolve nell’aria, riempiendo i miei polmoni, e penetrando fugacemente negli apparati respiratori dei passeggeri, che, fermata dopo fermata, mi si accalcano addosso, rubandomi un po’ di ossigeno vitale. Inferriate fredde fanno da contorno ad una strada di cemento e ad edifici gelidi di un verde acqua ospedaliero, con balconi allungati e comunicanti ma dalle finestre piccole, quasi soffocanti.

Il pullman inforca una curva prepotentemente, facendomi sobbalzare. Scivolo nel sedile accanto, una morsa mi afferra lo stomaco ma le mie iridi vitree restano attaccate al finestrino, ora appannato dal calore del mio fiato. Un magnetismo territoriale mi cattura, Torino si trasforma, il pullman scivola lungo la strada, entrando in una città dal respiro più ampio. Gli edifici dall’architettura maschile scompaiono alle mie spalle, due grandi seni prorompenti di una Torino collinare aprono le porte verso quella che sarà Piazza Vittorio. Un vigile, fuori dal finestrino, compila una multa per poi abbandonarla sul parabrezza di una Cinquecento; una testa calva e riflettente fuma una sigaretta lunga quanto il suo arto superiore. Attende alla fermata del pullman Biamonti, ma non sale.

La Gran Madre abbraccia l’immagine del centro di una città ordinata e silenziosa. Un tempio a pianta circolare che sembra cingere con la sua cupola, una calotta a cassettoni, il Po e la piazza che gli si apre davanti.

Un tram si ferma accanto, impedendo alla mia vista di cogliere ulteriori particolari. Una ragazzina di origine orientale osserva la mia immagine dallo spessore del vetro, con la testa appoggiata al finestrino e gli auricolari infilati nelle orecchie. Mentre si allontana la sua immagine si dissolve, i suoi capelli neri restano ancora un po’ nell’aria, li vedo fluttuare e sfumare fino a diventare strada, cemento, automobili.

“Adventum Regis” è l’ultima frase che riesco a cogliere della Gran Madre, prima che il mio autobus riprenda la sua corsa, e abbandoni la Torino nitida e monumentale.

Rivoli di pioggia scivolano lungo il finestrino come fossero lacrime. La velocità del mezzo di trasporto mi coglie impreparata, svoltiamo l’angolo e un bosco fitto di vegetazione e alberi nudi colma le mie pupille affamate di immagini. Il tempo è ovattato e irreale, le foglie ammosciate a terra suggeriscono alla mia mente una nostalgia autunnale.

Il traffico del martedì pomeriggio ci scorre accanto, noncurante dell’autunno che esplode nel paesaggio. Alfa Romeo, Giulietta, Yaris, e Cinquecento corrono verso una destinazione che non conosco, lasciando dietro di sé edifici floreali e balconi ornamentali, un’architettura che racconta la storia di una Torino diversa da quella conosco, frammenti di arte che riportano a un lontano Ottocento, e certamente trasudano l’impronta dei migliori architetti del tempo. Balconi in stile baroccheggiante impongono la loro presenza in una città impregnata di storia.

Qui sembra essere inverno: gli alberi appaiono nella loro nudità più cruda e reale, snellendosi man mano che raggiungono l’altezza del cielo, diramandosi in milioni di fragili ramoscelli che sembrano rappresentare ramificazioni venose all’interno di un corpo umano. A terra il tappeto di foglie lascia il posto ad un terreno umido.

Il paesaggio sta lentamente cambiando, ma l’occhio viene ingannato da un’alternanza di balconi stretti di edifici invernali a case signorili, con finestre accoglienti e turbini di tendine svolazzanti. Una natura morta consuma una Torino triste, risucchiata fino alle ossa da una forza disumana.

Alla fermata Molinette gli alberi si stagliano su di un cielo colorato di cemento, possenti e muscolosi, con un’alternanza, al di sopra del tronco, di grumi tumorali e ramificazioni venose. L’autunno li spoglia, e senza chiedere il permesso, cosparge le foglie accartocciate, che riposano nella polvere.

Un territorio popolare invade lo spazio circostante, la strada si allarga, spazia, si spalma sulla superficie terrena come una macchia d’olio su di un panno di seta. Edifici spenti, vuoti, come un calendario dell’avvento con fragili finestrelle mezze aperte, senza cioccolatino all’interno. Calzoni e lenzuola stracciate stese lungo i balconi, le serrande abbassate di negozi ammassati l’uno all’altro, volti di scarsa intensità corrono per la strada senza incrociarmi.

Una canzona roca squarcia il silenzio di un autobus affollato, un viaggio quotidiano dove esistenze stanche e frustrate condividono parte del loro ossigeno vitale, senza prestare minimamente attenzione a questo indispensabile scambio di energie.

I palazzoni s’infittiscono, quasi a sembrare una triste boscaglia cittadina. Un cappotto “Biagiotti” sormontato da una sciarpona nera e un cappello alla Sherlock Holmes, lascia presagire l’essere di passaggio dell’uomo davanti a me, che, irrigidito all’interno dei suoi abiti importanti, si guarda bene dal respirare l’aria popolana che Torino trasmette.

Siamo alla fermata Costantino il Grande, Torino torna ad essere monumentale, e io sono incredibilmente affascinata dalla sua capacità di cambiare volto così in fretta. La città sembra allargarsi, ancora, e ancora, la strada conquista un’altra corsia, il traffico aumenta, le automobili si moltiplicano, colorando un paesaggio di soffocante smog. Ora gli alberi sono più possenti, uomini forti e virili. Torino ha perso il senso del tempo e si è cristallizzata in una stagione a metà, dove la ruggine prende il sopravvento sul colore della natura e assorbe ogni elemento: soffoca l’erba, irrompe sulle palizzate ferrose, e penetra nella mente umana.

Arrivati al capolinea una landa desolata fa da sfondo a un autobus solitario. Infinite distese di praterie ed edifici grigi, bassi e in sovrappeso, che non comunicano nulla, ma sembrano quasi chiedere aiuto. Un odore di metano invade il mio sistema respiratorio; una Dr MartEns dondola a ritmo di una musica inesistente, la testa appoggiata ad un finestrino appannato. Le macchine circondano la nostra immobilità e ho come l’impressione che la vita stia scivolando via, liquida, a rallentatore. Ma le automobili mi contraddicono: divorano la strada voracemente, distruggendola, abbandonando alle loro spalle un terremoto terreno e un luogo costruito in cemento armato, dove la presenza umana non è la benvenuta. In lontananza scorgo le montagne innevate. Da qualche parte, in un’altra Torino, è inverno, mentre quaggiù il mondo è tinteggiato d’assenza e da liquori in vendita al dettaglio.

La mia città mi attrae e mi respinge. Con una morsa allo stomaco e il cuore pieno di emozioni fugaci, riprendo in mano il mio taccuino, e il pullman numero 66, tossicchiando, riparte.

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Elisa Bellino
Virgola
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Visual designer, storyteller, creative. (Believer of stupid things).